Il Manifesto del 22 luglio 1944 ad opera del Comitato Polacco di Liberazione Nazionale (organizzazione creata dall’Unione Sovietica) segnò l’inizio in terra polacca di cambiamenti radicali dell’ordine politico, economico e sociale dello stato. Apprestandosi a plasmare il nuovo sistema, le sedicenti autorità comuniste individuarono una delle sfide chiavi nella necessità di plasmare l’assetto proprietario in Polonia in conformità alla dottrina da esse propagata. Già nei primi decreti si potè ravvisare un approccio irriverente nei confronti delle civiltà occidentali nel contesto della tutela dei diritti acquisiti, ivi compreso il diritto individuale alla proprietà. Tramite le svolte istituzionali imposte con la forza le nuove autorità non si limitarono a respingere l’idea dell’inviolabilità dei diritti personali, misero anche palesemente in discussione la continuità normativa con lo stato polacco di prima della II guerra mondiale, che dal canto suo garantiva i diritti fondamentali dell’uomo. La rapidità e l’incisività del processo espropriativo condotto dai comunisti (e più volte accompagnato da vittime umane) ai danni dei cittadini e di altri individui che abitavano in Polonia confermò che a conferire carattere vincolante e sostanza ad un certo assetto legale fu uno stato di fatto fondato esclusivamente sulla violenza. Gli eventi verificatisi nel primo decennio della Repubblica Popolare di Polonia mostrano eloquentemente che sul fronte del diritto basilare alla proprietà, la facoltà di goderne e disporne da parte della persona e del cittadino può essere trattata come un concetto relativo, dipendente unicamente dalla volontà arbitraria del potere statale.